Parole sparse di Masomink
Confesso che son solito non frequentare i bar: non bevo caffè né cappuccino, non mangio lieviti cornetti, maritozzi, fagottini, ventagli, saccottini, sfogliatelle: chi fosse esperto in materia, eventualmente, mi aiuti ad allungar tendenzialmente all’infinito questa lista appena all’inizio.
Io mi fermo qui e se desidero chiacchierare con un amico preferisco farlo dinanzi a un calice di vino seduti attorno a un ligneo, caldo, accogliente tavolo di una osteria piuttosto che al cospetto di un modaiolo appetizer stando appoggiati al freddo bancone in alluminio di un bar. Per questo e per altri numerosi motivi, dunque: non frequento bar.
(Nota di Paoblog: Per Spugna e per chiunque sappia chi si cela dietro Masomink, ecco arrivare il solito monologo stracciamarroni sull’Amor Perduto. Detto ovviamente con il massimo affetto verso Masomink.)
Nonostante ciò, colei che rappresenta uno dei miei più importanti e passionali amori quelle passioni capaci di struggerti allo sfinimento consegnando all’esperienza il significato di piacere e sofferenza come unicum irrinunciabile, odi et amo quale percorso persino indispensabile verso il godere supremo l’ho conosciuta in un bar ove ella, per l’appunto, tatuata oltre misura svolgeva la professione di barman acrobatico: come si possa conoscere una barman non frequentando e non mettendo, solitamente, piede in un bar assume i contorni di quei misteri carichi di fascino e
pressoché impossibili da risolvere, pur indagando meditando e agendo senza risparmiar energie mentali e fisiche, che inaspettatamente ti offre la vita: in ogni caso, è questione che poco ci interessa e che invece risolverà, a tempo debito, colui cui il Destino affiderà il gravoso quanto prestigioso e piacevole onere di redigere la mia biografia.
Mi interessa, però, come punto di partenza di eventuale e gradito dialogare enunciare il pensiero che io non so, davvero, come e di cosa si parli all’interno di quei locali pubblici individuabili quali bar. Sempre ammesso che, poi, si possa generalizzare: si parla allo stesso modo in qualsiasi tipo di bar? In quello della stazione ugualmente come in quello del grande albergo o del museo di arte moderna?
E, poi: si parla linguaggio differente in un salone da barbiere? E in una officina meccanica? E nello studio di un notaio?
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Quel che, invece e decisamente, interessa qui tutti noi è: cos’è il parlare da bar?
Nella comunicazione e quindi nel linguaggio puramente giornalistica si individua come linguaggio da bar uno stile espressivo tendenzialmente e generalmente negativo. Negativo, ovvero, agli occhi dell’opinione pubblica oppure per quel che possiamo considerare il collettivo immaginario.
Positivo, però, per chi giornalista o editore che sia: fatti e comportamenti molto recenti ci han offerto ampia gamma di esempî voglia colpire, con rapidità ed efficacia, distruttivamente e giunga a risultati desiderati attraverso quel diffamatorio linguaggio.
Linguaggio da bar individua, sempre a livello giornalistico, esprimersi rozzo, volgare, volutamente sintetico inteso come incompleto, violento, denigratorio, qualunquista, superficiale e, anche, sterile.
Ovvero: volutamente distruttivo vòlto a distruggere l’immagine di qualcuno oppure involontariamente rozzo e sterile quando, cioè, chi si esprime non ha capacità né conoscenze tali da usare ricchezza di espressione e da offrire argomenti costruttivi all’interlocutore, singolo o gruppo che sia.
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Jorge Luis Borges, lo scrittore e non il nostro amico navigante del blog, suggeriva che «Stampando una notizia in grandi lettere, la gente pensa che sia indiscutibilmente vera»: aggressione giornalistica del pubblico, potremmo sintetizzare. Questa è, indiscutibilmente, una forma di linguaggio da bar.
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Potremmo accostare, anche e persino, il parlare da bar al cosiddetto parlare a vanvera: modo di dire, originario della Toscana e di quella lingua, risalente al Cinquecento del millennio passato; vanvera deriva da fanfera, ovvero farfugliare termine onomatopeico che si può individuare dall’espressione fan-fan, suoni ancor più che parole privi di significato comprensibile e, quindi, parlare a vuoto, senza dir nulla di concreto e significativo. Un parlare sterile, che non apporta utilità in chi ascolta.
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Potremmo dilungarci ancora, attraverso altri esempî. Ma non è il caso di aggiunger parole su parole: la sintesi sembra chiara ed eloquente. Possiamo accostare questi concetti di negatività, tali da assumere significato di parlar da bar, alla creatività dialettica ed espressiva di Guido Meda e Loris Reggiani?
Non credo proprio.
La loro dialettica, che si fa concreta nelle telecronache, non è violenta; né rozza, né volgare: piuttosto ludica, giocosa, solare, carica di neologismi. Una affabulazione.
Affabulazione è una narrazione fantasiosa: in entrambi i vocaboli individuiamo decisa positività. Narrare è raccontare: rendere un servizio al pubblico. Fantasioso è sinonimo, in senso largo, di arricchimento, divertimento, piacere: ancora un rendere servizio al pubblico. Al tempo stesso: la loro dialettica non è mai denigratoria, essendo, invece, sempre agonisticamente super partes.
Nel parlare di Meda e Reggiani non v’è sterilità: al contrario, sempre una offerta di qualcosa di nuovo, che arricchisce colui il quale ascolta loro. V’è, anche, una serena e ludica esposizione di cultura, tale da spaziare in numerosi campi, anche e ben al di là dell’argomento sportivo e
motociclistico: ancora una volta, un servizio offerto al pubblico. Che valica il semplice intrattenimento.
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Non è, quel caso, un linguaggio da bar.
Per quanto riguada Meda ed i suoi commenti, non li trovo mai oltre le righe, a meno di basarsi sulla fredda telecronaca fatta perchè è il tuo lavoro farla. Lui e Reggiani ci mettono passione, si rivolgono a noi appassionati come se parlassero fra loro. Mi piace. Si qualche volta gli scappa la parola di troppo, forse, ma come dice Francesco lo capiscono da soli, subito; ma forse che nelle chiacchere fra amici, soprattutto in ambito sportivo, non capita lo stesso?
Per il bar ed il suo linguaggio, non sono mai stato un frequentatore, per cui non posso dire nulla. Però i romanzi di Mavaldi, ambientati al BarLume li apprezzo…
Il piacevole racconto del bar come “vissuto” – esperienza, formazione, aneddoti, umani caratteri e personalità, colore, amicizia… – e quindi bagaglio di sentimenti e sensibilità, uomini e comportamenti esposto dall’amico Miro – racconto e visione che rimandano, effettivamente a Benni; ma inevitabilmente evocano anche il Bar Mario di Ligabue con tutte le sue “felliniane” figure e oniriche visioni; e chissà quanto altro ancora, a voler scavare in memoria e letteratura, tra cinema e visioni varie – conferma in me l’idea che il termine “linguaggio da bar” sia troppo generico, poco calzante, persino riduttivo e offensivo per quegli ambienti, quel luogo e tutto quanto esso possa rappresentare.
Resta, però, di fatto che giornalisticamente il termine “linguaggio da bar” evidenzia uno scrivere negativo, pressapochista e anche denigratorio come descritto nel mio post. E ciò io lo trovo ingiusto, ancor di più tenendo conto di quanti episodi carichi di colore e umanità di tante tinte, comunque sempre interessanti, vivono attorno al “luogo bar“.
E persino romanticismo. Per qualcuno, anche di nostra conoscenza, il bar è legato all’amore, ai sentimenti; la figura della barista, addirittura, per qualcuno, anche di nostra conoscenza, assume valore altamente sexy, carico di fascino e sensualità, eleganza e trasgressione…
Riguardo a certe “uscite“ del duo Meda-Reggio – uscite un po’ “balorde“, solitamente dovute più al secondo tra i due – raramente valicano il confine del buon gusto giungendo al cattivo; quando è successo: i due hanno sempre, immediatamente, avuto l’umiltà di evidenziare l’errore chiedendo scusa.
A volte il loro tracimante dialogare fa perdere qualche azione sportiva nel commento, ma posso garantire che il piacere della cronaca ci guadagna…
Io nei bar, anzi nel bar, ho passato gran parte delle serate nei giorni feriali dai 15 ai 27 anni. Mi riconosco totalmente in Bar Sport di Benni, scorrendo quella magnifica galleria di personaggi mi sembra sempre di incontrare i miei antichi e perduti amici e mi viene un groppo alla gola. Confesso di essere pedante e rompicoglioni come solo un tecnico da bar possa essere e anche i miei interventi come ospite in questo spazio non sono altro che chiacchiere da bar.
Nel Bar dei Cacciatori di Piazza San Giuseppe (frequentato da tutti tranne che da cacciatori) si giocava a calcio balilla ed a bigliardo fino alle undici. A quell’ora Silvana ci sbatteva fuori, allora, nella piazzetta del paese, intavolavamo improbabili discussioni sui temi più disparati ed a volte la stessa Silvana ci ritrovava lì alle quattro quando veniva a riaprire. La mia formazione culturale quindi mi impedisce di considerare il termine “linguaggio da bar” come un termine denigratorio….anzi. Detto ciò, pur non essendo un assiduo frequentatore del motociclismo in TV ho avuto notizia di exploit estemporanei dei due che superano i limiti del buon senso (e qualche volta del buon gusto) ma che probabilmente non tolgono nulla allo spettacolo che commentano. Un pò come accadeva ai tempi della famosa “il tie break è una vera roulotte russa” del bisteccone……