L’Accademia Italiana della Cucina, in collaborazione con l’Arma dei Carabinieri, dopo una ricerca durata 7 anni ha realizzato il libro Falso in tavola. Il libro analizza sia la sofisticazione degli alimenti, come ad esempio il pollo al cloro, la mozzarella con additivi per renderla più bianca e l’olio di colza spacciato per extravergine di oliva.
Esiste però anche la falsificazione delle ricette tipiche; nel 12% dei ristoranti analizzati, il risotto alla milanese era fatto con riso cinese, nel 6% dei ristoranti nella carbonara al posto del guanciale c’era il prosciutto. Queste ultime non sono falsificazioni pericolose epr il consumatore, ma “solo” per la nostra gastronomia.
I prodotti più “taroccati”:
1) Le tagliatelle: per rendere la pasta più gialla si ravvivano le uova con additivi (derivati dalla carota o dagli agrumi) nel mangime delle galine.
2) Trota salmonata: Si ottiene nutrendo la trota comune con mangime a base di crostacei che ne colora la carne.
3) Aceto balsamico: Spesso si tratta di semplice aceto di vino, colorato con caramello.
(Nota di Pao: Proprio ieri abbiamo comprato l’aceto balsamico; per abitudine ho letto le etichette e la maggior parte dei prodotti di fascia medio-bassa sono colorati e/o hanno additivi misteriosi. Se si vuole un aceto balsamico come si deve, è necessario andare su prodotti di prezzo alto. D’altro canto la qualità costa e non è un modo di dire.)
4) Speck: Invece di affumcarlo su legni di pregio per 24-48 ore, si asciuga la carne con l’alta temperatura e si inietta fumo liquido.
5) Vino: Quello da tavola viene spesso aromatizzato con trucioli di legno e non c’è nemmeno l’obbligo di scriverlo sull’etichetta.
(Nota di Pao: Avevo letto, tempo fa, che questa pratica è permessa in molti Paesi, per cui si tratta sicuramente di una sofisticazione, però legalizzata.)
Volevo intervenire con un commento degno di nota, ma… l’articolo mi piace, quindi… GRANDI!!! Continuate così!
Pur non essendo un intenditore dei vini, sono un consumatore attento, per cui la vicenda dei trucioli la conosco. Per amor di rpecisione copio alcune informazioni lette oggi: Per ridurre i costi e i tempi di produzione, le aziende vinicole hanno escogitato nuove tecniche, che simulano il caratteristico aroma del legno dato dall’invecchiamento tradizionale. In alternativa alle botti vengono utilizzati trucioli di legno di rovere, detti chips. Il risultato sono bottiglie vendute
a prezzi contenuti che imitano i vini più importanti. Per quanto ciò contribuisca ad appagare il palato, è importante sapere che si tratta solo di una simulazione dell’invecchiamento tradizionale. L’Unione europea, infatti, ha deciso che i trucioli di rovere immessi nel vino non possono essere vantati in etichetta con diciture come “fermentato in barrique”, “maturato in botte di quercia”, “invecchiato in botte” o altre analoghe, che alludano al tipico invecchiamento in botte. Sarebbe stato più chiaro e semplice rendere esplicita la questione, ovvero obbligare i produttori a riportare in etichetta che si tratta di vino “aromatizzato con trucioli di rovere”. Un aspetto che in Italia comunque riguarda solo alcune categorie di vini (quelli da tavola e quelli a indicazione geografica tipica), visto che il ministero dell’Agricoltura con un decreto del novembre 2006 ha vietato l’utilizzo dei trucioli nei vini nostrani Doc e Docg.
Dimenticavo: i trucioli di legno si possono usare anche per dare più tannino a un vino debole, troppo fluido e diluito. Il tannino è parte importante dell’uva: è contenuta nella buccia e nei raspi e, oltre ad avere qualità salutari e anticancerogene, crea la cosiddetta trama tannica, cioè la consistenza al palato di un vino. Un vino ricco di tannino ha più consistenza, complessità, densità al palato; ma anche aggressività e quindi ha bisogno di tempo per maturare, per arrotondarsi. Questo avviene in tempi lunghi attraverso l’elevazione in botte e l’affinamento in bottiglia e dunque fa salire il prezzo finale. Il truciolo di legno sveltisce tutto ciò con costi assai minori, ma i risultati in qualità non sono nemmeno paragonabili.
Come fa notare Pao, la pratica di “elevare” il vino da tavola per mezzo di trucioli di legno è piuttosto diffusa in alcuni Paesi, soprattutto in alcuni considerati “emergenti” nell’ambito della produzione enologica internazionale.
In effetti non è una vera e propria sofisticazione nel senso in cui siamo abituati in linea di massima a considerare questa: qualcosa che, ovvero, possa nuocere alla salute. Ma lo può essere considerando sofisticazione qualcosa di più largo e cioè qualcosa che altera il gusto, che snatura organoletticamente e quindi “culturalmente” un prodotto.
L’elevazione o maturazione di un vino è una delle fasi più affascinanti e, comunque, quella che richiede maggiore pazienza, tempo e, anche, abilità ed esperienza. È la fase in cui un vino riposa nel legno per maturare e raggiungere il livello adatto al suo consumo che si è prefissato l’enologo o, nei casi di un vino a Docg, Doc o Igt, stabilito anche per legge. Un bravo enologo deve saper capire i tempi e i sistemi giusti di elevazione in rapporto alla qualità dell’uva e dell’annata di vendemmia: un tempo troppo lungo o una botte troppo piccola (barrique) dove il vino è maggiormente a contatto con il legno aromatizzato dalla tostatura possono snaturare i naturali sentori di quell’uva (e di quel vino) arrivando ad annullarli o coprirli con quelli del legno. Un giusto passaggio in legno aggiunge qualcosa (generalmente sentori speziati e di tostatura) di leggero e gradevole, di terziario, a ciò che di suo il vino già possiede.
Immergere trucioli di legno nel vino accelera questi processi che richiedono lentezza, pazienza e sapienza (e costi di produzione: tenere un vino a maturare mesi o anni, fermo in cantina occupando spazio e tempo di controllo, fa salire il prezzo finale): lo si fa per snellire i tempi di produzione, ma finisce per alterare i sapori creando i cosiddetti “vini del falegname” che sanno più di legno che di frutto (ma in molti Paesi piacciono, de gustibus); oppure lo si fa per dare profumo a uve scadenti o comunque deboli che non sanno di nulla (ed è già una sofisticazione); peggio: lo si può fare per mascherare in modo economico vini da tavola semplici in discreti vini a Docg, come il Chianti, per esempio, dal quale non ci si aspetta sempre qualcosa di eccellente (e questa è proprio una truffa, verso i clienti, gli altri produttori e le Istituzioni).
Poche settimane fa in tv hanno fatto vedere il Pesto alla genovese, venduto nei supermercati dove la provenienza del basilico da Genova o da Bogotà, è il problema minore; addirittura gli ingredienti non sono quelli giusti, ma “simili” oltre che a vari additivi di dubbia origine, senza contare il fatto che, in ogni caso, sarebbero vietati. Se vuoi scrivere Pesto alla Genovese, hai l’obbligo di farlo con i giusti ingredienti.
Le leggi in vigore nell’Unione Europea, purtroppo, sono molto permissive in fatto di prodotti agroalimentari industriali e ciò fa sì che il consumatore – se privo di adeguata informazione – possa “legalmente” essere tratto in inganno o, se vogliamo dirla in modo più brutale, “legalmente truffato”.
Esempio paradossale ed emblematico è l’Aceto Balsamico di Modena che, seppure prodotto in modo corretto nelle procedure igieniche, nella maggioranza dei casi si tratta di un falso potendo provenire, giusto per fare un esempio, magari dalla provincia di Avellino. Solo se leggiamo la dicitura Aceto Balsamico TRADIZIONALE di Modena Dop abbiamo la sicurezza che proviene dalla tradizionale zona di produzione e che, cioè, è stato lavorato e soprattutto affinato nelle situazioni ambientali e climatiche ideali e per il tempo giusto (8-12 anni). Come dice Pao, naturalmente la qualità ha il suo prezzo (dato spesso dalla esiguità dei numeri e dai lunghi tempi di realizzazione): il costo di una “bottiglina” da 25 cl di Aceto Balsamico Tradizionale si aggira intorno a i 45 euro.
Spesso, anche se sembrano piccoli dettagli, sono l’ambiente e il clima in cui si coltivano le materie prime a determinare la specificità di un sapore:
ecco che il Pesto Genovese Dop è caratterizzato da quel particolare basilico che si trova solo in quelle zone, mentre per legge un pesto può essere Ligure anche se realizzato con basilico calabrese o campano;
l’uva sangiovese cresce in tutto il Mondo, ma solo grazie al clima di particolari areali dà vita a specificità degne di chiamarsi Brunello o Chianti Classico, ma per legge possiamo vedere anche un Chianti made in California (sic!);
il prosciutto di Cormòns è realizzato con la carne di maiali provenienti anche dall’Emilia-Romagna o dalle Marche, ma solo l’affumicatura attraverso erbe aromatiche di quelle zone in ambienti preparati da secoli ottiene quei particolari sapori che lo rendono unico;
un formaggio di fossa può essere un eccezionale pecorino dei Monti Sibillini piuttosto che delle Crete Senesi, ma solo se lasciato affinare nelle fosse di Sogliano sul Rubicone in provincia di Rimini o a Talamello in provincia di Pesaro-Urbino e solo in un determinato periodo dell’anno (dal 24 giugno al 24 novembre) in cui si sviluppano quelle particolari condizioni micro-climatiche;
altra situazione emblematica è quella dell’olio di oliva che, secondo la UE, può essere italiano semplicemente se le olive vengono frante in Italia, non importa se provengono da Spagna, Grecia, Marocco o Tunisia…
Insomma! È davvero una cosa impegnativa la giusta informazione gastronomica!