
Susanna Rabin ha trentatré anni, vive con la mamma a Ramat Gan, vicino a Tel Aviv, e a dispetto del cognome non è «parente di». Agli occhi di chiunque la osservi è una persona emotivamente fragile: afflitta da una serie di ossessioni, non riesce a tollerare nessun contatto umano e prova disgusto per tutto ciò che riguarda il corpo, proprio e altrui.
È appassionata del poeta inglese Shelley, ma ogni volta che lo legge piange a dirotto; dimostra un notevole talento artistico, scaturito da impulsi sconosciuti, ma è imprigionata in un suo mondo claustrofobico da cui non riesce a emergere, nemmeno con l’aiuto di un’assistente sociale e di una mamma iperprotettiva.
Tutto cambia quando a casa Rabin arriva Naor, un fascinoso cugino americano, ospite a tempo indeterminato venuto a seguire da vicino i suoi misteriosi affari in terra d’Israele. All’inizio per Susanna si tratta di un’invasione tutt’altro che gradita, ma col tempo Naor riuscirà a conquistarla, schiudendole spiragli di felicità inattesi e pericolosi.
Timida, malinconica e sentimentale, ma sempre ironica e traboccante di vitalità, la Susanna creata da Alona Kimhi è lo specchio della nuova generazione israeliana, lontana dal tragico passato di chi l’ha preceduta, disinteressata alla politica e apparentemente apatica.
Una gioventù che sa piangere e anche sorridere delle proprie miserie.
“Continuammo per la nostra strada, e all’improvviso apparve davanti a noi la più strana e stupefacente delle visioni: quando ci avvicinammo all’entrata del nostro condominio vidi il poeta Percy Bysshe Shelley. Il poeta era appoggiato con la schiena alla parete che ospitava le cassette delle lettere, e fumava una sigaretta. Aveva i capelli più lunghi e scuri di quanto avessi visto nella fotografia dell’antologia e indossava un paio di occhiali da sole, ma a eccezione di questi particolari era proprio lui… con un rapido movimento delle dita gettò la sigaretta lontano nell’erba, fece alcuni passi verso di noi, ignorò Nehama, che si era ripresa più velocemente di tutti e gli tendeva la mano, e si fermò di fronte al nostro piccolo gruppo in un atteggiamento tranquillo e amichevole che non riuscì a celare la sfumatura di impertinenza del suo carattere. Diresse le lenti scure degli occhiali verso la mamma mentre un paio di sopracciglia si aggrottarono, alzandosi sopra le lenti alla domanda: Ada? Ciao, sono Naor, di Bat-Ami, e la mamma lanciò un grido, completamente confusa per essersi sbagliata, ma pensavamo che solo tra… e lui la interruppe con un sorriso dallo splendore più strano che avessi mai visto e disse, sì, lo so, semplicemente sono arrivato via Londra, c’è un ristorante giapponese che adoro.”
Fonte: www.illibraio.it