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Mali, i petrol-dollari alla conquista della terra

E’ una situazione della quale ho letto (e pubblicato) in passato. Oggi su Il Fatto Alimentare ho trovato questo nuovo articolo, del quale pubblico un’ampia sintesi.

L’impresa cinese di costruzioni Cgc ha appena terminato i lavori dei nuovi uffici governativi a Bamako, capitale del Mali sulle rive del Niger. La “Administrative City” di uno dei Paesi più poveri al mondo  è stata finanziata da Malibya, development company a patrimonio libico. Guarda caso, Malibya è sussidiaria a Bamako della Libya Africa Investment Portfolio (Lap) che ha acquisito il diritto esclusivo per 50 anni di gestire 100mila ettari di terra nella regione di Ségou (Mali).

È l’ennesimo esempio di “land-grabbing”, usurpazione della terra, in questo caso concordata dai presidenti della Libia e del Mali a spese degli abitanti e della loro sussistenza. Ségou, la “ciotola di riso” del Mali, è da alcuni anni contesa tra gli investitori di Senegal, Sud Africa, Cina e le stesse imprese nazionali.

Il progetto di Malibya  promette irrigazioni, incremento dei raccolti, posti di lavoro e “food security” in un Paese dove molti ancora muoiono di fame. I rappresentanti degli agricoltori locali sono meno fiduciosi: è certo che verranno spossessati delle terre che possiedono senza titoli scritti, con indennizzi probabilmente irrisori, e che queste verranno adattate a nuove coltivazioni di riso altamente meccanizzate.

Poco si sa dei termini dell’accordo, nulla sull’impatto socio-ambientale. Oltre 150 famiglie sono già state scacciate dalle loro case per fare spazio al nuovo canale, che ha interrotto numerosi tragitti dai villaggi di fango ai pascoli, e si teme che questo sia solo l’inizio.

Georgette Foure, vedova con sei figli, che ha ricevuto 696 euro per l’espropriazione e l’abbattimento della sua casa con terreno circostante, perché si trovava sul percorso del canale:

«Nel mio fondo raccoglievo buone messi che mi aiutavano a mantenere la famiglia e pagare l’educazione ai bambini. Ora non abbiamo un posto dove vivere. Come vi sentireste se qualcuno venisse una mattina presto e distruggesse tutto?…..È difficile guardare avanti, perché la mia famiglia dipendeva da me. Ora lavoro nei campi di altre persone e cerco di arrotondare come posso. È un incubo, e la sola cosa che mi sostiene è affidarmi a Dio».

Poco più avanti, sull’altro lato del canale, sono visibili due antenne telefoniche. Sarà costruita anche una pista di atterraggio per gli aerei, e ciò alimenta le preoccupazioni che il riso coltivato da Malibya sarà destinato all’esportazione verso la Libia e altri paesi del Medio Oriente – anziché al consumo domestico – per rispondere alle esigenze di cibo delle popolazioni anche li in crescita.

E che dire del nuovo progetto irriguo?

«Questo progetto è buono per il governo, ma non per la popolazione. Anche prima che esso diventasse operativo, abbiamo compreso che l’acqua immessa nel canale verrà sottratta a tutti gli altri».

Gli agricoltori locali rischiano di perdere la loro terra e la sussistenza, ma questo forse è il rischio più grave del progetto Malibya. Il nuovo canale dovrebbe avere una capacità di 4 miliardi di metri l’anno, il doppio di ogni altro canale nella regione sub-sahariana.

Si teme perciò la mancanza d’acqua quando le riserve saranno basse, e girano voci sul fatto che Malibya avrebbe pure negoziato un accesso prioritario alle riserve idriche. L’acqua è vitale, in un paese dove la metà della superficie è deserta e il fiume Niger è cruciale per la produzione di riso, la pesca e il pascolo dei nomadi.

Non è tutto: la società-madre di Malibya, Libya Africa Investment Portfolio, a dicembre 2007 ha già investito 30 milioni di dollari in un progetto per la coltivazione di riso in Liberia, in accordo con la Ngo locale Foundation for African Development Aid (Ada) che ha ottenuto dal governo liberiano la concessione di su 15-17mila ettari di terreno.

Malibya si è affidata a partner cinesi sia per la realizzazione delle infrastrutture (appaltate a Cgc, società che appartiene al gruppo petrolifero cinese Sinopec), sia per la fornitura di sementi di riso ibrido e la formazione degli esperti locali (a una società non identificata che si suppone essere il leader nella produzione di riso ibrido, la “Yuan Longping High-tech Agriculture Chinese”).

Anche la biodiversità è a rischio.  Secondo Assetou Samaké, docente di genetica delle piante all’Università di Bamako nonché membro della Coalition for the Protection of African Genetic Heritage (Copagen), l’intera area del Niger è stata trasformata in una “foresta di esperimenti” e mancano informazioni sull’identità dei semi importati. Si teme perciò che possano anche avere luogo sperimentazioni incontrollate su sementi Ogm e ibride.

Le voci di protesta si levano dalla Coordination Nationale des Organisations Paysannes, e anche da alcune agenzie europee di aiuto, come la britannica Tearfund.  Ma le ruspe sono sorde, e procedono demolendo baracche e sepolture. È dunque necessaria una reazione su scala globale, come quella che nel 2008 ha impedito un sopruso sul 50% delle terre arabili del Madagascar da parte della sud-coreana Daewoo Corporation.

Infine, se la comunità internazionale non si mobilita per impedire che i più poveri del mondo vengano rapinati di terra e acqua, con quale coraggio respingere i “barconi della salvezza” che approdano sulle nostre rive?

Lettura integrale dell’articolo qui.