Ho letto un’intervista all’autore e devo dire che l’ho trovata un pò forte nei contenuti; di certo non posso neanche immaginare il percorso emotivo dei familiari di una vittima del terrorismo (o di qualsiasi atto criminale), tuttavia mi sembra che tale percorso sia individuale e quindi unico per ognuno dei soggetti. Non credo che si possa quindi dire con esattezza se sia giusto o meno, perdonare gli assassini e/o agire in un modo piuttosto che in un altro.
Anch’io non perdonerei gli assassini di un mio familiare, e francamente dentro di me non capisco chi lo fa, resta il fatto che ognuno di noi agisce come crede e come sente, per cui come è lecito che Coco affermi che:
Rivendico il diritto all’odio e al rancore: le assicuro che sono sentimenti condivisi nel contempo…
non mi sento di aderire al suo pensiero su chi ha optato per una scelta diversa come quando dice che:
…per accedere allo status di viptima, per dire, bisogna anche essere degli happy-light» (…) È la sostenibile leggerezza dell’essere, la facilità con cui si passa un colpo di spugna sul passato. (…) ma gli happy-light la rabbia dove l’hanno messa?».
Pur senza avvicinarmi neanche per sbaglio a chi ha vissuto tali tragedie per quel che mi riguarda ho vissuto una situazione personale devastante ed anche se ci sono voluti anni, ho accantonato odio, rancore e desiderio di vendetta, senza peraltro avere nessuna intenzione di perdonare chi ha causato a me (ed ai miei familiari) tutto quel dolore.
Sono quindi in una situazione intermedia fra quella di Coco e quella degli happy-light (secondo la sua classificazione).
Per quanto riguarda i terroristi ed il fatto che combattessero per i loro ideali, concordo con quanto dice Coco: se loro avevano gli ideali giusti, chi è morto stava dalla parte sbagliata?».
E dato che una mattina andando a scuola ho girato l’angolo della mia strada ed ho visto il lenzuolo che in strada copriva il cadavere di una delle vittime delle BR, una persona per bene che aveva la sola colpa di indossare una divisa, vien da chiedersi se ammazzare uno che portava a casa poche lire al mese, servendo la collettività prima ancora dello Stato, sia un gesto da capire e perdonare.
P.S. Trovo fuori luogo parte del commento dell’Infiltrato speciale che ho letto sul Blog di Panorama, che ovviamente è liberissimo di aderire in toto con il pensiero di Coco, affermando che: Sabina Rossa, Olga D’Antona, Benedetta Tobagi dovrebbero forse chiedersi se, prive della medaglia di vittime del terrorismo, sarebbero comunque approdate in parlamento o nel consiglio di amministrazione della rai per meriti propri. Io credo di no.
(Ed anche se io non sono di sinistra, forse l’Infiltrato, per onestà intellettuale dovrebbe anche chiedersi se Berlusconi sarebbe diventato più volte Premier senza avere le illimitate risorse, economiche e mediatiche, a supporto…ma questo è un altro discorso…)
…ma pecca di malafede quando scrive che: Le signore di cui sopra rispondono piccate dalle colonne…..di Vanity Fair. E ho detto tutto.
Forse hai detto persino troppo, Infiltrato; se l’intervista di Coco è stata pubblicata da Vanity Fair, dove avrebbero dovuto rispondere le persone tirate in ballo? Su Quattroruote piuttosto che su il Giornale?
Che poi…libero Coco di essere arrabbiato e liberi gli altri di non concordare. Cosa c’è di meglio di un confronto scritto, magari duro, ma nel rispetto dell’altro? Oppure meglio sarebbe impugnare le pistole per ribadire le proprie idee?
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Massimo Coco è una delle vittime degli Anni di Piombo. Suo padre Francesco, magistrato, fu ucciso nel 1976, nel primo attacco terroristico alle Istituzioni dello Stato. La sua storia, in fondo, non è diversa dalle tante già scritte e la sua sofferenza è quella di tutti i famigliari che hanno subito, dopo la perdita improvvisa e violenta di un padre, un marito o un figlio, anche l’umiliazione di non veder riconosciuti i propri diritti, l’ostilità della burocrazia, l’indifferenza delle Istituzioni.
Se ha deciso di parlare di sé e del padre non è dunque per aggiungere un tassello a un quadro noto, ma per porre una domanda alla quale, nelle testimonianze delle altre vittime, non ha trovato risposta: “Ma voi, la rabbia, dove l’avete messa?” Nessuno sembra indignarsi nel vedere gli assassini di ieri intervenire sui giornali e ottenere pubblicamente un perdono che non hanno cercato.
Nessuno denuncia l’ipocrisia di cerimonie commemorative trasformate in riti che assolvono le coscienze, o la banalità di spettacoli che mettono in scena commoventi riconciliazioni alleggerite del peso del passato.
In questo libro, Massimo Coco chiede che l’esercizio della memoria rispetti il patto che lega i sopravvissuti a chi si è sacrificato per non venire meno ai propri principi. Il patto ci chiede non solo di preservare il ricordo, ma di distinguere fra eversori e difensori della legge, di assicurare la giustizia, di superare il lutto per poter guardare a quei fatti con senso di responsabilità.