in sintesi un articolo di Dario Dongo che leggo su Il Fatto Alimentare
Una data memorabile per la salvaguardia dell’eco-sistema marino, il 7 febbraio 2012.
Da una sponda del pianeta all’altra, il Parlamento europeo ha votato a larga maggioranza una drastica riforma della Common Fishery Policy mentre il Governo della Repubblica Popolare Cinese ha annunciato il proprio progetto sul medesimo tema. Una rotta comune, verso criteri e metodi di pesca sostenibili.
Greenpeace ha conquistato il cuore di chi “gira le rotelle del mondo”? Difficile a credersi, senza nulla togliere al lodevole impegno dell’Ong in questione.
Si direbbe piuttosto che la politica non abbia potuto continuare a ignorare l’evidenza scientifica di un mare asfittico, destinato entro breve al totale spopolamento in assenza di una presa di posizione efficace contro il suo iper-sfruttamento. È solo una questione economica, un intervento necessario a garantire la continuità di approvvigionamento delle risorse ittiche negli anni a venire. Lo hanno capito gli americani, i cinesi e finalmente pure gli europei, dopo aver messo a tacere i recalcitranti armatori spagnoli e francesi.
Il premier Wen Jiabao ha presieduto la riunione del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese (R.P.C.) ove sono state adottate le nuove linee guida che definiscono un sistema di regole atte a favorire la crescita dell’industria peschiera all’insegna della tutela ambientale.
Anche a Strasburgo la ragione ha finalmente prevalso. Dopo decenni di politiche localistiche, gestite rovinosamente dal Consiglio dei Ministri, l’Assemblea ha imposto un’inversione di rotta che muove dai monitoraggi scientifici sullo stato di salute delle riserve idriche del continente quali basi per considerare revisioni e ripartizioni delle quote di pesca.