Un libro del 2007 di Francesco Abate & Massimo Carlotto che di fatto ha anticipato i recenti scandali in campo alimentare che oggigiorno occupano la pagine della cronaca.
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Questa invece la recensione (decisamente negativa) di Vittorio Coletti pubblicata su Ibs:
Massimo Carlotto (mi scuso con Francesco Abate se mi occupo soprattutto del suo partner più famoso recensendo l’opera che hanno fatto insieme) è uno scrittore che mi è sempre piaciuto. I suoi gialli, così attenti allo sfondo socioeconomico del Nord-Est italiano e degli anni novanta, sono romanzi avvincenti e intelligenti, spietati e lucidi, controllati da un’ottima scrittura, da una regia oculata, da un’astuzia di montaggio non comuni.
Da ultimo, Carlotto mi dà però la sensazione di essere un po’ in affanno, di restare troppo sul sicuro ma anche prevedibile terreno su cui ha costruito la sua fortuna. Questo romanzo, scritto con Abate, mi conferma la sensazione che avevo avuto già davanti a Nordest, steso in collaborazione con Marco Videtta.
Mi fido di te è un giallo, ma meglio bisognerebbe dire un nero, costruito con una tecnica efficace, ma troppo scoperta e gratuita: quella di evitare accuratamente che ci sia anche solo un momento, anche solo un personaggio non negativo, squallido, malvagio, disonesto.
Tolti due semplici poliziotti di contorno (ma lui è insopportabile col suo tic linguistico meridionalesco e furbesco, lei fa pena con il suo look scadente), tutti i protagonisti del libro sono o irrimediabilmente stupidi (in particolare le donne) o radicalmente malvagi e amorali. Non solo. La realtà dentro cui si muovono è anch’essa corrotta, stolida e brutta: dagli abiti alle automobili alle case alle feste alla politica.
Droga, denaro, malaffare sono le sole attività praticate. L’immagine compiuta della società è quella che emerge dai cibi, tutti (tolti pochissimi, molto difficili da reperire) guasti, contraffatti, pericolosi. Tutti i personaggi sono infatti intossicati da ciò che imprudentemente mangiano e della cui tossicità neppure si accorgono. Solo il narratore, per un po’, non si fa avvelenare in cucina, perché lui è nel ramo della distribuzione dei cibi scadenti e scaduti, dei componenti chimici sostitutivi di quelli naturali nell’alimentazione, di partite di porcherie riciclate nelle offerte speciali dei supermercati. Ma poi anche lui deve farsi di pillole e cibarsi di schifezze, se vuol sopravvivere.
Le disavventure del protagonista stanno dentro le coordinate invalicabili del marcio e della stupidità (commette, per pura scemenza, un crudele delitto che lo rovina, distruggendo il suo perfetto esercizio criminale), come tutto il resto dell’Italia toccata nel romanzo (Sardegna e Veneto) e del pezzo di Russia cui il lettore arriva all’ultimo (ovviamente quella della peggiore mafia del mondo). Non c’è nessuna remora morale, neppure affidata a un paesaggio, a un animale (anche i gabbiani sono immondi e malvagi), a una figura secondaria. Ci sono solo corruzione e violenza.
Ora, che sensazione si ha leggendo questo romanzo?
Che gli autori abbiano approfittato a man bassa della facile attrazione per il male, il sordido, il cattivo (la giovane e potente malavitosa sfatta dalla droga e obesa, vogliosa di sesso e dominio è il ritratto vomitevole ed efficace di questa umanità senz’anima e cervello), di cui hanno infilato nel libro quantitativi superiori al lecito (non intendo, si badi, il lecito etico o realistico, ma quello letterario).
Un romanzo è, per restare alle metafore alimentari, un dolce in cui non puoi mettere troppo zucchero o troppa panna. Il racconto del male non può essere brutto; il buio non si vede se non si accende mai una luce. E invece Abate e Carlotto hanno preso la scorciatoia dell’effettaccio, della melma disgustosa spalmata a piene mani, della sequenza di negatività moltiplicabili all’infinito. A un certo punto questo libro rischia di assomigliare a un filmino pornografico, dove, dopo un po’, la scena non può che ripetersi e annoiare.
Sono sicuro che i due autori ne sono consapevoli. La loro ha tutta l’aria di essere un’operazione a freddo, fatta per dimostrare come si può scrivere un noir italiano oggi, con un occhio già all’eventuale riscrittura cinematografica. La percezione acuta della società, dei costumi; lo sguardo sull’Italia attento e spregiudicato che si coglievano nei primi libri di Carlotto è ora una trouvaille letteraria, prevedibile e ripetitiva dopo poche pagine.
Non basta riempire il magazzino di tutto il peggio che c’è in giro (dai Suv ai telefonini, dalla politica alla delinquenza) per farne l’appartamento tipo della vita moderna, da osservare con intelligente ripugnanza. Resta solo la ripugnanza, ma non vai troppo in là solo con gli effetti schifosi.
Gli autori sono bravi a suscitarli e con essi catturano il lettore, che però termina il libro con un’impressione di falso, di esagerato, di inutile.