Raccontare una storia non è mai un gesto innocuo, una semplice distrazione o un passatempo: di questo Matteo Caccia è sicuro, e ne ha fatto il cuore del suo mestiere di narratore.
Le storie ci attraversano, ci condizionano, perciò è necessario imparare a leggerle e ad ascoltarle. Dopo il successo di programmi radiofonici come Pascal, Amnèsia e Una vita, i podcast, l’invenzione del format Don’t tell my mom, Caccia ha deciso di ripercorrere tutta la sua esperienza narrativa e trasformarla nelle pagine di Voci che sono la mia.
Dalla Maratona di New York alle strade notturne di Kobane, dalla cabina telefonica nel deserto del Mojave fino alla rimessa di barche di Bocca di Magra, in un continuo intrecciarsi di voci e incontri i racconti di Caccia ci mostrano tutti gli espedienti per sperimentare e perfezionare l’arte della narrazione: la sua costruzione, l’uso del corpo, la giusta temperatura incalzano e riescono a far percepire l’anima del racconto.
Ci rivelano inoltre una condizione imprescindibile per riuscire ad ascoltare e a leggere: sapere che ciascuno di noi è il risultato di tutte le voci che ha udito, le pagine che ha letto, i racconti che gli sono stati tramandati.
Solo forti di questa consapevolezza le storie avranno su di noi il potere di cambiarci e, talvolta, anche di salvarci.
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La storia raccontata nell’estratto mi ha fatto tornare in mente quando una persona conosciuta su Instagram, dopo qualche scambio aveva percepito la mia capacità di ascoltare e mi aveva chiesto se poteva telefonarmi.
Io detesto il telefono, ma le ho detto di sì, ha chiamato e mi ha raccontato che cosa la opprimeva. Ho ascoltato, ho riflettuto, le ho detto la mia. Ha ascoltato, ha riflettutto. Successivamente ci siamo scritti in merito. Ed un giorno sono arrivati due messaggi che mi hanno fatto sorridere e che hanno confermato che talvolta apririsi con uno sconosciuto, che non ti giudica, ma ti ascolta, può darti lo stimolo a riprendere in mano la tua vita.
Perchè situazioni di questo tipo mi sono successe altre volte….