La vita dell’attivista ambientale, in Perù, è più rischiosa che altrove.
È il quarto Paese al mondo per numero di omicidi di militanti, dopo il Brasile, l’Honduras e le Filippine. Dal 2002 al 2013 sono state assassinate 57 persone impegnate nella lotta alla deforestazione.
Oltre metà del Paese, infatti, è coperta dalla foresta pluviale, ma il disboscamento illegale procede a ritmi vertiginosi, per soddisfare la voracità della domanda internazionale di legname e altri prodotti.
L’ultimo a perdere la vita, è stato Edwin Chota, uno degli attivisti più conosciuti a livello internazionale.
Una vera e propria colonna del movimento contro la deforestazione, che aveva denunciato le minacce delle compagnie al proprio governo prima di restare ucciso da un colpo d’arma da fuoco in un’imboscata tesagli lo scorso settembre.
Chota è diventato un simbolo, in tutto il mondo, del prezzo che talvolta pagano gli uomini e le donne che decidono di lottare contro lo sfruttamento e l’industrializzazione dei territori.
Il fenomeno non è radicato soltanto in Perù: secondo Global Witness, nel decennio 2002-2013 più di 900 persone che difendevano l’ambiente o si battevano per il diritto alla terra sono state assassinate in 35 Stati.
Si viaggia su una media di due attivisti uccisi a settimana: dato che parte dei crimini non viene riportata, il numero reale è anche più alto.
Il peggio è che i colpevoli agiscono del tutto impunemente: solo in 10 casi sono stati individuati e assicurati alla giustizia. Ma la morte di attivisti come Edwin Chota non è il risultato di oscuri regolamenti di conti nel profondo delle foreste.
Si tratta di una diretta conseguenza della incessante domanda del mondo sviluppato di prodotti come legna, olio di palma, gomma, gas naturale, animali. Un cedro può fruttare 9 mila dollari, un mogano 11 mila. Cifre che in certe zone rurali valgono ben un omicidio…..
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