Vi è mai capitato, mentre siete comodamente seduti sul divano di casa, di non sentire più metà del vostro corpo, e finire ricoverati d’urgenza per un’emorragia cerebrale? No?
A Chiara Galeazzi sì. A 34 anni.
Questo libro è il racconto – pieno di umorismo, emozione e senza alcuna retorica, né «guerriere» o «eroine» – di quello che è successo dopo.
La diagnosi inaspettata, la paura che la vita sia cambiata per sempre, le strane rassicurazioni dei medici («che fortuna avere un ictus da giovani!»), i No Vax che le augurano la morte, i racconti surreali della fauna ospedaliera.
E ancora la ricerca di una causa che non si trova, la lunga riabilitazione, la noia e le ciabatte ortopediche.
Il tutto sotto lo sguardo compassionevole e allo stesso tempo mortificante delle altre persone, che pensano e dicono all’unisono: «Poverina».
Leggi anche questo articolo de Il Post con il primo capitolo del libro:
Gli ictus, come i figli, è meglio averli da giovani.
Non sono io a dirlo, non mi permetterei mai di sindacare su cosa fa la gente coi propri organi, tutti quanti, in qualsiasi momento della vita. Sono entrambe frasi che ho sentito dire.
Quella sui figli me la disse un collega, e per essere precisi concluse la frase dicendo che una donna a trent’anni era troppo vecchia per avere figli. Me lo disse quando di anni ne avevo 29, lasciandomi così una manciata di mesi per creare le condizioni ideali per mettere al mondo un pargolo, condizioni che prevedevano innanzitutto la voglia di averlo. A 34 anni la voglia era ancora assente, ma tanto ormai per quel mio collega potevo anche smettere di sperarci: ero vecchia, e i figli è meglio averli da giovani.
Per un ictus invece a 34 anni sei giovanissima. Me lo dicevano di continuo neurologi, fisiatri, infermieri, oss: «sei giovane», «il tuo cervello è giovane», «i tuoi neuroni sono giovani»,
segue…