Lorenzo è uno scrittore alle prese con teatro, riviste, radio e crede di possedere una visione politica consolidata. Vive a Roma nel quartiere Esquilino. Lì si mescolano due idee molto diverse dell’Italia contemporanea: quella multietnica, del mercato di piazza Vittorio e dei negozi cinesi e quella nazionalista rappresentata da un centro sociale di estrema destra.
In quel pezzo di Italia c’è un altro dissidio, quello che Lorenzo coltiva sin dall’adolescenza dentro di sé, un dissidio che affonda le radici nel suo cognome. Lo stesso del nonno Alessandro, raffinato intellettuale ma soprattutto fascista implacabile, fondatore delle Brigate nere e anima della Repubblica di Salò.
Lorenzo scopre chi era suo nonno a scuola, quando vede su una pagina del libro di storia una foto, quella immagine di piazzale Loreto, in cui Benito Mussolini, Claretta Petacci e gli altri gerarchi sono appesi a testa in giù. Tra loro un uomo a torso nudo pende sotto una pensilina su cui è scritto in stampatello: Pavolini.
Tanti anni dopo l’autore prova a capire chi sia stato veramente suo nonno, cosa lo abbia spinto a cavalcare con tanta ostinazione la sua tigre.
Ricostruisce così una storia fatta di reticenze, conflitti e timori riguardo il rapporto tra lui, la sua famiglia e l’eredità di quel cognome.
Un romanzo di memorie e passione che attraversa l’Italia di questi anni dove ancora la notte giovani mani scrivono sui muri la scritta “Pavolini eroe” e le sue frasi celebri sono slogan di nuovi estremismi.
Leggi anche questo articolo di Pavolini su Il Post: Il 25 aprile non era una festa per tutti. Lo trascorrevamo nel silenzio selvatico delle montagne d’Abruzzo. Era la giornata della reticenza. Avrei scoperto solo alle medie, sul libro di storia, chi era stato mio nonno, e la vera ragione per la quale non si presentasse mai all’uscita di scuola.
Non era semplicemente “morto in guerra”. Eccolo lì il suo cadavere, le braccia penzoloni, la corda intorno agli stivali, il cognome a stampatello sulla pensilina, la vernice colava un po’. E la foto urlava, letteralmente. Ogni volta che la guardavo sentivo le grida della folla intorno. Degli italiani.
Ho cominciato a scriverne quando ho avuto la stessa età di quel cadavere, quarantadue anni. Incontri, interviste, letture per decifrare la rabbia di quella folla che gli sputava addosso, ma anche per cercare di capire le idee e le speranze che avevano portato mio nonno a credere nel fascismo fino al suo tragico esito, e con lui non erano in pochi, e sicuramente erano stati in tantissimi.
Perché quella passione tenace per il fascismo?
Intorno a questa domanda sono cresciute per me vere e proprie amicizie, con scrittori e intellettuali che dialogavano con il fascismo quotidianamente, incantati da Fiume, come Aurelio Picca, o dalle bonifiche del Ventennio, come Antonio Pennacchi. O come Uri Cohen, italianista israeliano che conosceva gli scritti di Alessandro Pavolini meglio di me e si accaniva a interrogarmi sui destini della famiglia prima e dopo il 25 aprile.